Secchiaroli, Tazio: fotografia originale nella quale sono ritratti Federico Fellini e Marcello Mastroianni sul set del capolavoro del regista riminese 8 e 1/2. Gelatina ai sali d’argento in stampa vintage; la fotografia è stampata su pregiata e pesante carta baritata: 20 x 29 cm. Al retro timbro a tampone nero Tazio Secchiaroli, indicazioni a pennarello e a matita. Senza data ma 1963 circa. Insignificanti tracce d’uso ai margini. Provenienza Nadia Stanchioff. In ottimo stato di conservazione. Pubblicata in Tazio Secchiaroli: Federico Fellini, Rizzoli, 2003, pagina 34.
(…) Nelle ultime settimane, con ansia crescente, avevo tentato di ripercorrere l’itinerario della gestazione di quel film al quale non avevo saputo dare neanche un titolo, sulla cartella dove raccoglievo gli appunti avevo scritto provvisoriamente “8e1/2”, riferendomi al numero dei film che avevo girato fino a quel momento. Dunque: come era nata l’idea? Cos’era stato il primo contatto, presentimento del film? Il vago e confuso desiderio di fare il ritratto di un uomo, in un giorno qualunque della sua vita. Il ritratto di un uomo mi dicevo, nella sua contraddittoria, sfumata, inafferrabile somma di diverse realtà; e in cui traspaiono tutte le possibilità del suo essere, i livelli, i piani sovrapposti, come un palazzo al quale è crollata la facciata, e che rivela il suo interno, tutto insieme, scale, corridoi, stanze, solai, cantine, e i mobili di ogni stanza, le porte, i soffitti, e le condutture, gli angoli più intimi, più segreti. Il tortuoso, cangiante, fluido labirinto dei ricordi, dei sogni, delle sensazioni, un groviglio inestricabile di quotidianità, di memoria, di immaginazione, di sentimenti, di fatti che sono accaduti tanto tempo prima, e convivono con quelli che stanno accadendo, si confondono tra nostalgia e presentimento, in un tempo fermo e magmatico, e non sai più chi sei, o chi eri, e dove va la tua vita, che appare soltanto un lungo dormiveglia senza senso (…) Rifletto che mi trovo in una situazione senza via d’uscita. Sono un regista che voleva fare un film che non ricorda più. Ecco, proprio in quel momento si è risolto tutto; sono entrato di colpo nel cuore del film, avrei raccontato tutto quello che mi stava accadendo, avrei fatto il film sulla storia di un regista che non sapeva più qual’era il film che voleva girare (…)
8 e 1/2 era un film molto particolare già nel titolo, e girato in un’atmosfera serena che fu ben colta da Secchiaroli. In questa occasione il fotografo realizzò uno dei suoi reportage migliori, fermando i momenti di lavoro così come quelli di riposo e di scherzo. 8½ è uno di quei rari film dove sin dalle prime inquadrature si stabilisce un perfetto equilibrio tra autoanalisi prettamente autobiografica e trasposizione del senso di confusione e noia che dopo un certo percorso attanaglia le nostre esistenze. Fellini concepisce 8½ a 43 anni, tre anni dopo il successo mondiale de La dolce vita (1960), in un bianco e nero abbagliante che rispecchia fedelmente la dimensione straniante del sogno. 8½ nasce sulla tabula rasa di sentimenti e di punti di riferimento lasciata da La dolce vita, ma anche da una crisi ispirativa ben documentata da Tullio Kezich nel suo saggio biografico Federico: «Fellini è esaurito e non ha più idee, l’episodio di Boccaccio ’70 è solo un espediente per confessare la sopravvenuta impotenza creativa. Questo retroscena, impalpabile come tutti i fatti umorali, costituisce la premessa di 8½». Raymond Durgnat in una analisi molto approfondita del film, affermerà che 8½ riesce a conciliare Pirandello (una psicologia del vuoto), Busby Berkeley (il dinamismo della parata), il neorealismo (l’osservazione commiserante totalmente diversa dal voyeurismo), Joyce (la messa in scena dello stream of consciousness) e la sensazione proustiana che le immagini mentali si sposino con la ricchezza del mondo esterno.
(…) Lei ha fatto benissimo, mi creda, oggi è una buona giornata per lei. Sono delle decisioni che costano, lo so, ma noi intellettuali, dico noi perché la considero tale, abbiamo il dovere di rimanere lucidi fino alla fine. Ci sono già troppe cose superflue al mondo, non è il caso di aggiungere altro disordine al disordine. In fondo perdere dei soldi fa parte del mestiere di produttore. I miei rallegramenti, non c’era altro da fare, e lui ha ciò che si merita, per essersi imbarcato con tanta leggerezza in un’avventura così poco seria. No, mi creda, non abbia né nostalgia né rimorsi, distruggere è meglio che creare quando non si creano le poche cose necessarie. E poi, c’è qualcosa di così chiaro e giusto al mondo che abbia il diritto di vivere? Un film sbagliato per lui non è che un fatto economico, ma per lei, al punto in cui è arrivato, poteva essere la fine. Meglio lasciar andare giù tutto e far spargere sale come facevano gli antichi per purificare i campi di battaglia. In fondo avremmo solo bisogno di un po’ di igiene, di pulizia, di disinfettare. Siamo soffocati dalle parole, dalle immagini, dai suoni che non hanno ragione di vita, che vengono dal vuoto e vanno verso il vuoto. A un’artista, veramente degno di questo nome, non bisognerebbe chiedere che quest’atto di lealtà: educarsi al silenzio. (…) Ricorda l’elogio di Mallarmé alla pagina bianca? e di Rimbaud? Un poeta mio caro, non un regista cinematografico, lo sa di Rimbaud quando ha finito una poesia, la sua rinuncia a continuare a scrivere, la sua partenza per l’Africa? Se non si può avere il tutto, il nulla è la vera perfezione. Mi perdoni quest’eccesso di citazioni, ma noi critici facciamo quello che possiamo. La nostra vera missione è spazzare via le migliaia di aborti che ogni giorno, oscenamente, tentano di venire al mondo. E lei vorrebbe addirittura lasciare dietro di sé un intero film, come lo sciancato si lascia dietro la sua impronta deforme? Che mostruosa presunzione credere che gli altri si gioverebbero dello squallido catalogo dei suoi errori. E a lei che cosa importa cucire insieme i brandelli della sua vita, i suoi vaghi ricordi, o i volti delle persone che non ha saputo amare mai?” (l’intellettuale Carini in 8½)
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