Masino, Paola: Monte ignoso. Romanzo, Milano, Bompiani, 1931, 18,5 x 13,5 cm. Brossura editoriale; pp. 232, (2) più 6 di pubblicità editoriale. Dedica autografa firmata e datata (1932) di Paola Masino. Opera prima. Premio Viareggio. Edizione originale.
A Roma negli anni ’80 era un’istituzione. La vedevi sempre alle prime, a teatro e all’Opera, una signora alta e sottile con i capelli ondulati raccolti a crocchia, percorsi da pochi fili bianchi malgrado l’età (era del 1908) e la vedevi nel foyer che parlava parlava parlava, fitto fitto, sempre, con questo e con quella, col suo cappotto pied-de-poule e la borsetta nera infilata nel braccio. Si riconosceva subito, per l’altezza, ma soprattutto per un paio di grandi occhiali da vista dalle lenti scure, azzurrognole, che non toglieva mai, mai che li cambiasse con lenti trasparenti. Un vezzo, una necessità? Un modo sardonico di esaltare la propria natura sulfurea, acida, stregonesca? Si chiamava Paola Masino, per i più l’eterna compagna di un grande scrittore semidimenticato, Massimo Bontempelli, morto nel 1960, e lei rimasta a far da vestale al suo ricordo e a rimestare fra le sue carte. Ma non era solo questo Paola Masino. Anzi, prima di tutto è stata e resta, un grande talento femminile: estrosa, coltissima, eccentrica, autrice di un mucchietto di libri, alcuni pubblicati con successo nella giovinezza e poi entrati nel buio della dimenticanza (capita ormai a nomi ben più celebri), altri rimasti nel cassetto, e da ultimo autrice esclusivamente di libretti d’opera per musicisti contemporanei, quelli insomma che nessuno vuole ascoltare. (…) Paola Masino la cui vita fu avvolta nello scandalo, persino prima che la giovane donna si affacciasse alla ribalta della Letteratura e del romanzo. Da quando, esattamente, conobbe Massimo Bontempelli e se n’innamorò, riamata. Un amore durato una vita intera, ma che dovette pagare un prezzo alto al moralismo perbenista di una società che, almeno quanto a giudizi e pregiudizi erotico-sentimentali non sembra cambiata poi tanto. Quando si conobbero, nel 1927, Paola non aveva ancora compiuto diciotto anni. Lui ne aveva trenta di più ed era sposato con un figlio, famiglia, però, da cui viveva da tempo separato. E’ Bontempelli, direttore della rivista 900, a pubblicarle i suoi primi testi, ma la coppia, per poter vivere liberamente il rapporto, deve aspettare la maggior età di lei. Finalmente, nel ’29, per allontanarsi dai pettegolezzi si trasferiscono insieme a Parigi, dove fanno vita bohèmienne. Sono così poveri che lei non può permettersi né vestiti né gioielli e allora adorna vecchi abiti con monili fantasiosi: ghirlande d’edera, fiori al posto di spille d’oro, bracciali e collane altrettanto vegetali. Ma sono felici. Scrive infatti alla madre il 22 marzo del ’46, e non solo per rassicurarla: «La nostra vita mi piace moltissimo», e a me, quel giorno dell’83 in viale Liegi, descrisse in questi termini l’esperienza parigina: «Era una vita meravigliosa. Eravamo poveri, ma non ce ne importava niente. Abbiamo saltato qualche pranzo e qualche cena per comprare libri, ma era una cosa normale per noi. Parigi era stupenda in quel periodo. C’erano De Pisis, Pirandello, Palazzeschi, Picasso, Valery, Max Jacob… un vero crogiolo d’intelligenza». Grazie a tante amicizie artistico-letterarie internazionali strette nella bohème francese e in tanto altro vagabondare, Paola riuscì negli anni a mettere insieme una collezione molto speciale: un mazzo di oltre duecentocinquanta carte da gioco («la carta è un simbolo metafisico» diceva) ognuna firmata da un grande pittore, da Carrà a Burri, da Fautrier a Campigli, da Guttuso a Consagra, da Cocteau a Calder. (…) Chi l’ha conosciuta la racconta come persona arguta e ironica, sfrontata e “maschile”. Non si sentiva a suo agio nei panni femminili classici, proprio lei che aveva votato la sua vita a un unico grande amore, lei che del femminile aveva le destrezze e le umili capacità manuali (aveva passato, per dire, il giorno del Natale ’39 a smontare e ricucire un vecchio cappotto alla sua grande amica Anna Maria Ortese). Lei che rinunciò ad avere figli per non soggiacere ai prevedibili destini femminili che le facevano orrore; lei che in una lettera ai genitori del 1940 si sfoga così: «Se potessi finire il mio libro! Se questi maschi maledetti sapessero quanto più noi di loro desideriamo fare certe cose che loro mettono come pegno della loro stima e poi ci tolgono la possibilità di compierle» (…) Era intelligente, irrequieta e abitata da foschi fantasmi fin da piccola, che spiegano – a dispetto della sua vivacità sociale, della sua ironia e grazia gentile che indubbiamente possedeva anche quando era una vecchia signora – la buia visione del mondo e dell’umanità che esprime nei libri. In una splendida intervista rilasciata a Enrico Filippini, sulla Repubblica del 7 giugno 1982, si racconta così: «Io ero un grumo di morte, di spavento, di dolore. Sono nata impastata di questo dolore. Per tutta la vita ho fatto sogni terrificanti: Bontempelli li raccoglieva con l’intenzione di spedirli a Freud». Sandra Petrignani
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