Ungaretti, Giuseppe: Vita d’un uomo VII. Fedra di Jean Racine, Milano, Mondadori, 1950, 20 x 13,5 cm. Brossura editoriale con alette; pp. 194. Dedica autografa firmata e datata (1950) scritta ad inchiostro verde ed indirizzata allo scrittore Giansiro Ferrata, insieme ad Alberto Carocci e Leo Ferrero fondatore nel 1926 della rivista letteraria “Solaria”. Insigne studioso della letteratura italiana, diresse per la casa editrice Arnoldo Mondadori le collane “Classici Contemporanei Italiani” e “I Meridiani”. Ebbe anche un piccolo ruolo nel film La notte di Michelangelo Antonioni del 1961. Brunitura al dorso e ai margini della copertina. Edizione originale.
Sconvolta dal terribile amore per il figliastro Ippolito, la Fedra di Racine è una vittima del destino che riuscirà a purificarsi attraverso il suicidio. Capolavoro del grande drammaturgo francese, qui nella traduzione di Giuseppe Ungaretti. Molto ci sarebbe da dire sull’importanza che riveste il lavoro di traduzione nella poetica di Ungaretti. Si ricorda che il poeta è un leopardiano doc, cioè postula la traduzione come trionfo del proprio gusto personale nel rispetto del “collega” tradotto; perché parte, come già Leopardi, da due presupposti indiscutibili: che solo un poeta possa tradurne un altro, e che solo dall’incontro-contaminazione fra due personalità poetiche possa sgorgare una traduzione accettabile. Ungaretti distingue anzitutto fra la traduzione di testi narrativi, che è possibile e perfino agevole a volte perché basata sui connotati logici e discorsivi del testo, e quella di testi poetici, considerata invece molto più ardua perché tributaria dei sensi i quali però non possono neanche essere facilmente disgiunti dalla razionalità. Tradurre poesia è quindi per Ungaretti che pure vi si dedicherà per decenni e ne pubblicherà vari volumi, una “impresa da matti. Tra la semplice versione in prosa e la libera rielaborazione Ungaretti sceglie una terza strada: il recupero della massima fedeltà possibile ma in base al proprio gusto personale e alle proprie consuetudini poetiche e creative, laddove la tecnica non rappresenta che una delle componenti e deve costituire parte integrante del processo traduttivo-creativo. La traduzione non potrà dunque mai essere impersonale, ma è sempre l’opera di un poeta che si sovrappone con il massimo rispetto al poeta originale (Ungaretti evoca un compromesso fra due spiriti), e ne trae un arricchimento che non gli arriderebbe se si limitasse a concentrarsi sulla propria produzione. Nel 1950 introducendo la Fedra raciniana, Ungaretti parla esplicitamente della persuasione che, risiedendo da ormai più di trent’anni in Roma, fossi necessariamente impegnato a risolvere una mia crisi di gusto, dalla quale non sarei uscito se non – se era l’aria che ogni momento respiravo – quando nei modi della mia poesia si fossero finalmente immedesimate la naturalezza e la potenza espressive del Barocco.
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