Alvaro, Corrado: Poesie grigioverdi, Roma, Lux, 1917, 19,5 x 13 cm. Brossura editoriale; pp. 71, (5). Fioriture diffuse dovute probabilmente alla qualità della carta, più accentuate da pagina 60 a fine volume. Edizione originale.
A parte l’acerba monografia sul santuario di Polsi, l’esordio di Alvaro è rappresentato da un volumetto di versi, in obbedienza a una diffusa consuetudine, la quale richiedeva che un giovane intellettuale facesse il suo ingresso nel mondo letterario con una raccolta poetica. Alvaro raccolse così nel 1917 un mannello di liriche degli anni 1915-16 sotto il titolo Poesie grigioverdi, riproposte poi nel 1942 nel volume Il viaggio. Le prime poesie s’ispirano all’esperienza della guerra mondiale, preannunciando il romanzo autobiografico del 1930 Vent’anni che ne dà una più ricca ricostruzione. Alvaro insiste sul motivo drammatico della guerra come doloroso distacco del giovane soldato dalla sua terra, dalla famiglia e dalla casa, secondo quella sua tematica legata alle tradizioni del Sud e alla difficile necessità per l’uomo meridionale di emigrare altrove. Alcune tra le poesie di maggiore intensità sono: “Pastorale”, in cui un abile cacciatore di lupi, costretto ora a rivolgere contro i nemici la sua bravura, afferma la necessità di ucciderne molti per poter essere ripagato della casa che ha dovuto abbandonare; “Il contadino soldato” che confessa di amare il lavoro agricolo e di fare la sua parte in guerra solo per orgoglio di fronte alle donne e ai bambini; “A un compagno”, ove il poeta chiede a un commilitone di portare alla famiglia la notizia della sua morte, non appena sarà avvenuta, ma in termini di consolazione; “Lettera a casa”, che è un saluto ai genitori e ai fratelli; “Mio fratello che va alla guerra”, dove Alvaro partecipa alla solitudine del fratello lontano da casa in età più giovane della sua. Succedono, nella seconda parte, alcune poesie del tempo di pace intorno ai primi trasalimenti amorosi e sul sogno di una vita felice presto stroncato dalle difficoltà della cattiva sorte: queste probabilmente toccano il momento più alto nel “Compianto”, in cui Alvaro reagisce al suo fatalistico pessimismo con un appello virile a tutti gli uomini perché “la nostra esperienza” che ha aperto “la coscienza di tutto quanto è umano” non vada perduta: “Che tutto questo non sia stato invano”.
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