Vigolo, Giorgio: Canto fermo, Roma, Formiggini, 1931, 21,5 x 13 cm. Brossura editoriale con alette; pp. 230, (6). Significativa dedica autografa firmata e datata (gennaio 1936) di Giorgio Vigolo a Corrado Cagli: … credo troverai in queste mie pagine qualche apparizione del tuo genio. Te le dedico di cuore … Piccola mancanza al margine alto del retro di copertina. Edizione originale, non comune.
La formazione del mio temperamento poetico è forse già posta in una confluenza di elementi paterni e materni. Mio padre, poco più che ventenne, venne a Roma dalla nativa Vicenza; sposò una donna romana, la nipote del sindaco Pietro Venturi (amico del Belli), pronuba la musica che li fece incontrare, poiché tutti e due erano anche musicisti (…) Il mio primo maestro fu mio padre, che amava passeggiare per questa città con quella meraviglia che hanno gli uomini del nord più che i Romani stessi. Gli piaceva molto portarmi con sé alla scoperta di Roma; e così per mano di lui, imparavo i poeti a memoria (…) Poco dopo intravidi quella meteora affascinante che era la musica sinfonica nei primi anni di questo secolo: Mozart, Beethoven, Wagner. E di lì fu facile il passaggio a Goethe, a Schiller, a Kant. Altro mio grande amore fu poi Rimbaud, dalle cui “Illuminations” mi vennero i primi lampeggiamente lirici (…) E’ di allora il mio sodalizio poetico con Arturo Onofri, interrotto poi per il suo successivo esoterismo steineriano. Ciò rafforzò anzi il mio bisogno di armonia, di equilibrio. Sorge così la mia ispirazione a una forma, a una fermezza classica che voleva contemperare Goethe con gl’Italiani (Petrarca, i Cinquecentisti, Leopardi). Ma il vero mediatore tra questi due mondi io lo dovevo inaspettatamente scoprire nel Belli, allora ignorato (si preferiva Pascarella o Trilussa), che io cominciai a leggere quasi in chiave surrealista e con la accensione fantastica e visionaria delle “Illuminations”. Come un prodigioso capovolgimento nel terrestre il mondo del Belli mi rivelava sconosciute dimensioni del linguaggio, mi allucinava con le sue potenti costruzioni, il demonismo dei suoi magici ex-voto, le sue sonorità di bronzo: ma da lui apprendevo insieme la radice più dolorosa dell’esistenza. Da queste esperienze convergenti, nacque, dopo la scomparsa dei miei genitori che lasciò in me un profondo solco tragico, la mia poesia di “Canto fermo” e, a brevi ani di distanza, del “Silenzio creato”, del “Conclave dei sogni” in una stagione di fervore fantastico, quale forse non ho più avuto; lavorai con una poetica della composizione musicale e ideale, a una sintesi di sensibile e soprasensibile che doveva sempre meno andare d’accordo con l’estetica allora dominante (…) Ciò mi creò anche una posizione tipicamente ereticale, rispetto alle poetiche allora più in voga (poesia pura, ermetismo ecc.) e alla critica da esse emanata, che estrapolava dalla mia opera i pochi punti di casuale concordanza, sacrificandola nei suoi schemi come in un letto di Procuste, oppure decretandone l’auto-da-fé sui bianchi righi del silenzio (…)
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